sono egla erin duin, il mezzelfo

La storia di Egla Erin Duin (abbandonato sul fiume)
Perhedel (mezzelfo)

egla erin diun


Ritrovato sul fiume

Il mio nome è Egla Erin Duin il Mezzelfo, Duin per quei pochi amici che ho. Nella lingua comune degli uomini significa “abbandonato sul fiume” perché proprio lì fui trovato, nascosto in un cespuglio sulla riva di un ruscello molto più a sudovest di dove siamo ora, in attesa che i lupi o qualche cosa di peggio facesse la festa a quel fagotto di carne che ero. Avrò avuto sì e no quindici giorni di vita, come mi raccontarono in seguito Liva e Bellonca, le due donne che mi raccolsero. A tutti gli effetti le considero la mia famiglia, insieme alla sorella minore di Bellonca, Alia, anche se oggi i nostri rapporti sono un pochino -come dire?- stiracchiati. Ma di questo avremo modo di parlare in seguito. Dunque la mia vita comincia quindici giorni dopo la mia nascita, in riva a un corso d'acqua che solo la poesia dell'elfico poteva trasformare in un fiume. Che fossi almeno per metà appartenente a quella razza era più che evidente: le orecchie a punta, il viso allungato, l'ossatura minuta, i tratti femminei... Le cose che stonavano erano la mia capigliatura, folta e nera come la Foresta dei Peccati, e i miei occhi, scuri come due pozzi di lava bruciata. Quando cominciarono ad accorgersi di queste caratteristiche fu Liva a darsi da fare innanzitutto per capire da dove provenissi e, immagino, soprattutto da chi. Era ben difficile, disse il Magister del villaggio alla mia meta-mamma, che potessi essere un elfo alto: orgogliosi e arroganti non abbandonavano la propria prole, soprattutto in questa era in cui, come ciclicamente avveniva, si ritiravano nelle loro rocche rifiutando qualsiasi contatto con il resto del mondo. Forse un elfo silvano ma la mia corporatura massiccia sembrava negare anche una tale ascendenza. Per cui in meno che non si dica quel “sant'uomo” decretò che ero un bastardo mezzelfo nato da un umano e un'elfa, o il contrario -quasi peggio di un incrocio tra un nano e un goblin- e emanò la sua personale “bolla” su Liva e Bellonca. Era inaccettabile infatti che due donne conviventi dai rapporti ambigui tenessero con sé un bambino venuto da chissà dove. Avevo sei anni, fino a quel momento ero passato quasi inosservato, spacciato per un lontano cugino ma ormai la frittata era fatta. Jala, il paese dove risiedevamo a un tratto divenne molto meno amichevole di quanto lo era stato fino al giorno prima. E i duecentoventinove abitanti si privarono molto volentieri della nostra presenza, e lo fecero in modo molto drammatico.

In fuga/1
Due notti dopo il verdetto un gruppo di uomini si presentò alla porta della nostra casa. Tra le due Liva rivestiva implicitamente il ruolo del maschio quindi affrontò il gruppo. Volarono parole grosse, gli uomini volevano costringerle ad abbandonarmi nuovamente ma Liva non mollò di un centimetro il terreno. Dentro la casa Bellonca sedeva su una panca stringendo a sé Alia, la sorellina che allora aveva dieci anni. Io a mia volta stringevo la mano di Alia e sentivo la tensione della loro paura. Tremavo di rabbia, sarei voluto uscire ad affrontare quegli uomini insieme a Liva ma mi aveva ordinato di rimanere dentro. E poi in un attimo la tragedia, rivivo quei momenti quasi ogni notte da vent'anni a questa parte e ogni volta mi risveglio in preda al sudore e quella stessa furia impotente. Liva urla agli uomini di andarsene ma non fa in tempo a finire la frase che si sente un colpo violento e poi un altro, un corpo che cade, urla frenetiche, altri colpi violenti. Non resisto, mi alzo per uscire, Bellonca tenta vanamente di trattenermi, sento il suo pianto e quello di Alia, apro l'uscio e di botto perdo la mia innocenza. Liva è a terra, il viso tumefatto dai colpi ricevuti, un paio di uomini sta ancora dandole calci sulle costole, mi vedono e si bloccano, quasi impauriti. Senza rendermene conto ho un pugnale in mano, un regalo di Liva, e avanzo verso di loro. Si raccontano strane cose dei bastardi, a volte molto inquietanti e questa cosa torna utile con degli zotici che contano gli anni a cicli di cinque -terra, acqua, fuoco, aria e spirito. I due uomini cominciano a camminare all'indietro, inciampano quasi sbattendo contro i loro compagni alle spalle. Io avanzo ancora, mi permetto di guardare Liva per un attimo e poi fisso il mio sguardo sul gruppo, li conto, sono sette, li osservo uno a uno, mi stampo nella mente i loro visi illuminati dalle torce, infine, dopo un'eternità- ma saranno passati solo pochi minuti- urlo con quanto fiato ho in gola, un urlo straziante, pieno di dolore ma anche di furia cieca. Quando riapro gli occhi il gruppo si è dissolto, cado in ginocchio e abbraccio Liva, per l'ultima volta. Sono ancora piccolo, ma sono in grado di percepire il tocco della Morte. La donna apre gli occhi a sua volta, respira molto a fatica eppure riesce a sorridermi, provocandomi una fitta di disperazione. Mi accarezza il volto e mi invita ad avvicinarmi a lei. “Mio piccolo Norie -mi sussurra sputando un po' di sangue- ora puoi abbandonare questo nome che non ti appartiene.Tu sei Egla Erin Duin il Pelhedor, il mezzelfo abbandonato sul fiume”. La guardo attraverso le lacrime che non riesco più a trattenere, gli occhi verdi che stanno perdendo il loro splendore smeraldino, gli splendidi capelli fulvi diventati rosso scuro a causa del sangue. Mi strappo una manica del giacchetto per pulirle il viso ma ormai non le serve più. Liva muore così, tra le mie braccia, vittima della superstizione e dell'ignoranza.
Come chiunque potrà facilmente intuire, da quella notte la mia vita cambiò radicalmente, così come quelle di Bellonca e Alia. Cambiarono, di conseguenza, anche i nostri rapporti. Ricordo con estrema chiarezza tutto: andai da un nostro vicino con cui avevamo un buon rapporto. Certo, non si era mostrato particolarmente coraggioso quella notte, ma forse non aveva sentito nulla e comunque non avevo molta scelta. Bussai con violenza alla sua porta e quando aprì gli spiegai trafelato che cosa era successo chiedendogli di prendersi cura del corpo di Liva. Quindi tornai a casa e trovai Bellonca che piangeva disperatamente accasciata a terra, mentre Alia aveva lo sguardo fisso del panico. Dovevo prendere l'iniziativa in modo brutale per portarle via. Senza parlare mi diressi verso la mia stanza dove raccolsi le mie poche cose in una sacca e feci per uscire nuovamente. Fu Alia per prima a riscuotersi chiedendomi che cosa stessi facendo Non aspettavo altro. “Me ne vado-dissi con decisione- e penso sia bene che voi veniate con me. Qui non c'è più nulla di buono per noi”. “Per te forse -mi apostrofò con cattiveria Bellonca- è colpa tua se hanno ammazzato Liva”. Accusai il colpo, mi sentivo rifiutato per la seconda volta nella mia vita, ma non potevo permettere al mio orgoglio di avere la meglio. Abbassai il capo e dissi semplicemente: “E' vero, ma l'accusarmi non riporterà in vita Liva. Credo che lei vorrebbe che continuaste a vivere e anche bene, e qui, ormai non è più possibile”. La piccola Alia mi sorprese per la sua lucidità. Si chinò verso la madre e la scosse per un braccio. “Norie ha ragione, dobbiamo andarcene”. Attesi che facessero i loro bagagli e quando fummo pronti per la partenza le guardai e mi limitai a dire: “il mio nome è Egla Erin Duin il Peledhor”.
La mia vita, ovviamente, cambiò radicalmente, così come quella delle due donne. Ma quel che è peggio è che cambiarono anche i nostri rapporti. Liva in qualche modo misterioso aveva mantenuto un equilibrio all'interno della nostra piccola famiglia improvvisata, soprattutto rispetto alla mia presenza. La sua morte mi fece scoprire, con tristezza, che Bellonca mi aveva tollerato solo per amore di Liva. Con Alia era diverso. Più grande di me di cinque anni, mi aveva sempre trattato con affetto e anche in quelle tragiche circostanze non fu da meno, con grande rabbia della madre che voleva allontanarla da me. Inoltre tutto ciò che aveva perduto in lucidità sembrava essere stato recuperato da Alia. Anche io, nonostante il profondissimo dolore -solo allora mi resi conto che Liva era stata per me una vera madre, mentre Bellonca era rimasta sullo sfondo- riuscivo a non farmi travolgere dagli eventi ma cercavo in qualche modo di gestirli, con tutta la mia infanzia ormai definitivamente perduta in favore di una maturità non cercata.
Partimmo all'alba con il nostro mulo ed era pieno giorno quando, ormai distanti parecchie leghe da Jala, sentimmo alle nostre spalle un galoppo serrato. Ci allontanammo in fretta dal sentiero che stavamo percorrendo e ci nascondemmo nella macchia al limitare del bosco. Si trattava di un solo cavaliere e non faceva parte del gruppo responsabile dell'assassinio di Liva. Questa parola, nella mai mente, si associò immediatamente all'idea di vendetta: mi resi conto che già quando avevo scrutato i loro visi avvolti dalla luce delle torce li avevo condannati a morte. Non li avrei mai dimenticati. Il cavaliere trattenne l’animale. Rimase un attimo fermo in mezzo al sentiero. Sentii Alia sussurrare: “è Kellerman, il figlio del fornaio”, da sempre suo corteggiatore. Il ragazzo sembrava incerto sul da farsi. Poi gridò: “Alia, Bellonca, so che siete nascoste qui vicino, ma se abbandonate quel piccolo mostro al suo destino sarete perdonate!” Sulle spine, avevo estratto il mio pugnale. Non avevo idea di come affrontare un ragazzo di quindici anni molto più grosso di me, ma ero comunque deciso a vendere cara la pelle. Poi Alia uscì dal nascondiglio e si piantò di fronte a Kellerman. “Perdonate di che?” gli urlò in faccia. Il giovane sembrava sbalordito e anche impaurito. “Avete dato rifugio ad un essere...” “Vattene Kellerman, torna al tuo piccolo villaggio, noi riprenderemo la nostra strada e non vi disturberemo più con la nostra presenza” Alia aveva il volto teso per l'ira e l'angoscia che qualcun altro avesse avuto la stessa idea di Kellerman. Mentre si voltava il ragazzo protese un braccio e l'afferrò con forza. “Non puoi andartene via!” “Lasciami”, la ragazza strattonava il braccio cercando di liberarsi. Uscii anche io dal nascondiglio con il pugnale in mano.Kellerman mi vide e si mise a ridere: “ecco il piccolo mostro”. Ero piccolo, ma non un mostro, solo le orecchie un pochino a punta, e soprattutto ero molto molto agile. Mi buttai verso la coppia e -come immaginai- mi trovai di fronte addosso ad Alia, usata come scudo. Mi limitai a ruotare sul suo fianco e su me stesso allo stesso tempo e dopo un istante avevo il fianco di Kellerman scoperto di fronte alla punta del mio pugnale. Non conoscevo ancora molto bene le parti vulnerabili del corpo umano per cui mi limitai a infilargli il pugnale in profondità nella coscia destra. Cacciò un urlo e lasciò immediatamente Alia per premere la mano sulla ferita. Cadde a terra continuando a urlare e a minacciarci di morte, ma io presi Alia per mano e la condussi nel bosco, dove era rimasta Bellonca con il mulo. Mi ero fatto un altro nemico.
Nei sei anni che seguirono vagammo di villaggio in villaggio e diventammo sempre più bravi a mimetizzarci fino a sparire, innanzitutto per evitare ulteriori guai: le voci superstiziose sono più pericolose di una daga. Secondo i racconti che ascoltavamo di volta in volta nelle locande sembrava che avessi ucciso chissà quanti uomini, mente Bellonca e Alia erano diventate streghe o prostitute. Io poi ero diventato talmente bravo nell’arte di camuffarmi o nascondermi che cominciai a rubare, cosa che ci permise di mangiare e dormire molto meglio. Ma se Alia era quasi divertita dalle nostre avventure, Bellonca appariva sempre più provata e arrabbiata.
E un giorno ci fu la seconda svolta della mia vita.Eravamo ormai molto lontani da Jala e le voci su un “mostriciattolo mangiatore di carne umana accompagnato da due puttane” erano ormai retaggio di un anno prima almeno. Ci sentivamo relativamente tranquilli anche se per prudenza continuavamo ad evitare di apparire troppo. Eravamo in una locanda di un paese chiamato Quor, sul mare, e cercavamo un passaggio in nave. Il marinaio di fronte a noi ci squadrava e soprattutto guardava la scollatura di Alia, nel pieno della sua rigogliosa adolescenza. “Così vorreste un passaggio”, disse l'uomo, tarchiato, pieno di tatuaggi, con tutti i denti d'oro che brillavano in una bocca dalle labbra carnose. Insomma, lo stereotipo del marinaio. Bellonca in queste circostanze era sempre incerta, ma d'altra parte era l'unica adulta e spettava a lei parlare. “E con che cosa paghereste? E per andare dove?”. “Vogliamo...vogliamo attraversare il Mare Boscoso per arrivare a Sirtaya”rispose la voce incerta di Bellonca. “Costa caro, ma tua figlia ha qualcosa che mi interessa” disse l'uomo. Rabbrividii, Bellonca stava per dire di no ma Alia la fermò. “Va bene, vediamo che vale questo mezzo uomo”. Il marinaio diventò d'un tratto serio, io portai la mano al pugnale sotto il tavolo ma dopo un istante la sua risata scrosciante ruppe la tensione. “La ragazzina è sveglia di lingua, vediamo come se la cava a letto”. Gridai ad Alia che non era obbligata a farlo, ma mi fermò con la mano. “E' l'unico modo” mi sussurrò.

In fuga/2
Di solito dormivamo tutti e tre assieme, io per terra e le due donne sul letto, se ci trovavamo in una locanda. Io e Bellonca salimmo in camera. Lei si sedette rigidamente sul letto, il viso privo di espressione, bianco come uno spettro. Non disse una parola mentre si raggomitolava distesa, ancora vestita. Dopo dodici anni di vita insieme, non riuscivo ancora a comprenderla. Era talmente piena di paure che era un miracolo che fossimo arrivati fin lì tutti interi, fino a quella sera…Dopo aver spento le candele attesi che si addormentasse, cosa che riusciva a fare piuttosto rapidamente nei momenti difficili. Strisciai verso la porta e uscii furtivamente, in cerca della stanza del marinaio. Non fu difficile trovarla. La porta era semiaperta e riuscivo a sentire la sua voce rabbiosa che inveiva contro Alia. Allargai leggermente l’apertura per vedere meglio e rabbrividii. La ragazza era seduta a terra contro il letto, completamente nuda, mentre il marinaio, con il solo torso nudo incombeva sopra di lei. Paura, eccitazione e rabbia si agitavano mi tenevano paralizzato fino a che l’uomo non si voltò –forse Alia involontariamente aveva diretto lo sguardo verso di me o che altro?- e mi vide. Nonostante la mole era veloce e prima che potessi reagire mi aveva afferrato per il collo sbattendomi contro il muro. Ero senza fiato per la botta e di nuovo sentii un calcio arrivarmi dritto alle costole. Avevo la vista annebbiata e nonostante ciò scorsi con chiarezza Alia che si alzava in piedi, completamente nuda, per offrirsi all’uomo con parole supplicanti. “Lascialo stare, è solo un bambino –le parole mi arrivavano come dal fondo di una caverna- prendimi se mi vuoi”. Il secondo calcio non arrivò e ne approfittai per tirare fuori il pugnale mentre l’uomo si girava a contemplare Alia nei suoi splendidi sedici anni. In quegli anni qualcosa avevo imparato e senza pensarci troppo passai la lama affilatissima sul suo tendine destro, azzoppandolo. Cadde a terra urlando e bestemmiando mentre mi rialzavo a fatica e andavo verso Alia. La sua nudità mi offuscava la vista ancora più del dolore che sentivo alle costole. La abbracciai mentre l’uomo a terra continuava a sbraitare. Allungò una mano e riuscì a prendermi una caviglia. La sua stretta era ferrea ma ugualmente mi girai su me stesso e diedi di taglio sul polso mentre cadevo a terra a mia volta. La stretta si allentò, Alia, poco dietro di me, cercava qualcosa per coprirsi, il sangue schizzava dappertutto e le urla dell’uomo salivano di tono. Ormai era certo che l’intera locanda fosse sveglia. Rialzandomi in piedi vidi il vestito di Alia, glielo lanciai e andai di corsa alla porta per chiuderla. Ormai non avevo scelta. Tornai indietro e piantai il pugnale di punta nel collo del marinaio. Lanciò un ultimo grido e infine morì, affogato nel suo sangue. In quel poco tempo nessuno sarebbe intervenuto, ne ero certo. In posti come quelli la gente, se non costretta, tendeva a farsi prudentemente gli affari propri. Fissai il mi primo omicidio con attenzione, chiedendomi se non avessi potuto concluderlo in modo migliore, senza tutti quegli strepiti e quel sangue. Fin da giovane sono stato convinto del valore sostanziale della forma migliore con cui fare o dire le cose. Comunque in quel particolare frangente non c’era molto tempo per lo studio, occorreva fuggire di nuovo. Dunque io e Alia ci sedemmo sul letto. Mi sentivo completamente stordito, ero pieno di sangue non mio e dolorante in ogni parte del corpo. Il viso della ragazza era gonfio per il pianto ma nonostante questo mi abbracciò accarezzandomi il volto. Mi girai e all’improvviso la baciai. Non so come mi venne, nemmeno ci avevo pensato, fu puro istinto. Dopo una lieve risposta  mi disse “ora non abbiamo il tempo”. 



AddThis